di Gabriele Iuvinale
Meno di novanta giorni fa, in quel di Lussemburgo, la Corte di Giustizia europea ha accolto il ricorso presentato da Vivendi contro l'Autorità per le garanzie delle Comunicazioni e Mediaset SpA, nella causa C-719/18. La sentenza ha stabilito la contrarietà al diritto dell'Unione europea dell'articolo 43, comma 11, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi media audiovisivi e radiofonici). Secondo il Giudice europeo, dunque, Vivendi avrebbe avuto le carte in regola per detenere le azioni Mediaset.
La vicenda processuale aveva preso l'avvio dalla campagna di acquisizione delle azioni di Mediaset condotta nel dicembre 2016 da Vivendi, società di diritto francese che detiene anche una partecipazione del 23,9% nel capitale di Telecom Italia SpA. In virtù di tale campagna, Vivendi era arrivata a detenere il 28,8% del capitale sociale di Mediaset e il 29,94% dei diritti di voto nell’assemblea degli azionisti, senza peraltro che tale partecipazione minoritaria qualificata le consentisse di esercitare un controllo su Mediaset, rimasta sotto il controllo del gruppo Fininvest.
L’azionista di maggioranza della Fininvest SpA, al vertice del gruppo, è Silvio Berlusconi (causa C219/17, Silvio Berlusconi e Fininvest, comunicati stampa n. 93/18 e n. 205/18).
Mediaset denunciava allora Vivendi dinanzi l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM), accusandola di aver violato il citato articolo 43, comma 11. Ai sensi di questa norma, è vietato ad un’impresa, anche attraverso controllate o collegate, di conseguire ricavi superiori al 10 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni, qualora tale impresa detenga una quota superiore al 40% dei ricavi complessivi del settore delle comunicazioni elettroniche. Si sosteneva, infatti, che le partecipazioni in Telecom Italia e in Mediaset avrebbero comportato un ricavo di Vivendi nel settore delle comunicazioni elettroniche da un lato, e nel SIC dall’altro, superiore alle soglie stabilite.
Con una delibera del 2017, l’AGCOM accertava che Vivendi, avendo acquisito le predette partecipazioni in Mediaset, aveva violato tale disposizione italiana e le ordinava di porre fine a tale violazione.
Pur ottemperando all'ordine dell’AGCOM, trasferendo ad una società terza la proprietà del 19,19% delle azioni di Mediaset, Vivendi ricorreva al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, chiedendo l’annullamento di tale delibera. Il TAR, a sua volta, sospendeva il procedimento rivolgendosi alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale.
La Corte, preliminarmente, ha ricordato che l’articolo 49 del TFUE vieta qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato. Simili effetti restrittivi - ha specificato - possono prodursi in particolare quando una società, a causa di una normativa nazionale, possa essere dissuasa dal creare in altri Stati membri entità subordinate, come un centro di attività stabile, nonché dall’esercitare le sue attività tramite tali entità. Ha, inoltre, aggiunto che una tale restrizione può essere ammessa solo se giustificata da motivi imperativi di interesse generale, quali la tutela del pluralismo dell'informazione e dei media.
Sulla base di queste premesse, la Corte ritiene che l'articolo 43, comma 11, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 violi la normativa europea in quanto:
non fa riferimento ai collegamenti tra la produzione dei contenuti (che implica un controllo editoriale) e la trasmissione (che invece esclude qualsiasi forma di controllo) (par. 68 della sentenza);
definisce in modo restrittivo il perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche, escludendo mercati che rivestono, invece, un'importanza crescente per la trasmissione di informazioni, vale a dire i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet nonché i servizi di radiodiffusione satellitare (par. 74 della sentenza);
fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un’impresa sia effettivamente in grado di influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media (par. 79 della sentenza). La Corte contesta, in particolare, l'equiparazione - ad opera dell'articolo 43, comma 11, in argomento - delle società controllate e delle collegate al fine del calcolo dei ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche (par. 78). Nella sentenza si mette in luce (par. 77) che, in virtù dell'articolo 2359, c. 3, del codice civile, il "controllo" esercitato su una società collegata si basa su una presunzione ampia, secondo la quale una società esercita un’influenza notevole su un’altra società quando può esercitare un quinto dei diritti di voto nell’assemblea degli azionisti di quest’ultima, o un decimo degli stessi se la prima società detiene azioni quotate in mercati regolamentati.
L'equiparazione può comportare, nella ricostruzione della Corte, un duplice ordine di problemi:
da un lato "tali circostanze non sembrano consentire di dimostrare che la prima società possa concretamente esercitare sulla seconda un’influenza tale da pregiudicare il pluralismo dei media e dell’informazione" (par. 77);
dall'altro il calcolo dei ricavi realizzati nel SIC potrebbe essere falsato qualora i ricavi di una medesima società siano presi in considerazione due volte: "sia per il calcolo dei ricavi di un’impresa che è sua azionista di minoranza, sia per il calcolo dei ricavi di un’impresa che è suo azionista di maggioranza ed esercita su di essa un controllo effettivo. " (par. 76).
Se questo è il lato tecnico, da altro punto di vista la sentenza ha agitato le acque nel mondo politico.
Il Senato, infatti, in sede di conversione del DL 125/2020, ha introdotto l'articolo 4-bis, definito da molti un vero e proprio "emendamento salva Mediaset”.
Si tratta di sorta di golden power estesa alle telecomunicazioni ed ai giornali.
La nuova norma dispone, infatti che - in considerazione delle difficoltà operative e gestionali derivanti dall’emergenza sanitaria in atto, in armonia con i princìpi di cui alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 3 settembre 2020, nella causa C-719/18 - a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e per i successivi sei mesi, nel caso in cui un soggetto operi contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche e in un mercato diverso, ricadente nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC), anche attraverso partecipazioni in grado di determinare un’influenza notevole ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta ad avviare un’istruttoria, da concludere entro il termine di sei mesi dalla data di avvio del procedimento, volta a verificare la sussistenza di effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo, sulla base di criteri previamente individuati, tenendo conto, fra l’altro, dei ricavi, delle barriere all’ingresso nonché del livello di concorrenza nei mercati coinvolti, adottando, eventualmente, i provvedimenti di cui all’articolo 43, comma 5, del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, per inibire l’operazione o rimuoverne gli effetti.
Una norma, dunque, che rende più difficile fare acquisizioni in questo settore senza una sorta di preventivo controllo pubblico di congruità. Ed il primo effetto, allora, sarà mettere al riparo le aziende di Silvio Berlusconi dall’assalto della francese Vivendi.
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